Non è un paese per donne

Anche quest’anno in prossimità della ricorrenza della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne il movimento transfemminista globale ha portato in piazza milioni di donne, e non solo, in tutto il mondo. In Italia con oltre 100.000 persone alla manifestazione del 23 novembre a Roma.

25 novembre 2017 – piazza della Repubblica

Lo ha fatto ricordando che in tutto il mondo le donne sono in rivolta contro la violenza patriarcale, razzista, istituzionale, ambientale ed economica. In Cile come nel Rojava le donne sono in prima fila nelle lotte di liberazione dal patriarcato. Solo con la rivoluzione femminista in ogni ambito è possibile realizzare una vera rivoluzione sociale, politica ed economica. In questi ultimi anni gli attacchi ai diritti delle donne sono quotidiani. Leggi contro l’aborto libero, sicuro e gratuito, leggi che disincentivano l’accesso al lavoro delle donne, tagli al welfare statale, la riabilitazione della falsa sindrome di alienazione parentele. Questi sono solo alcuni esempi del piano di attacco sferrato contro le donne e l’intera società. Nelle contestazioni di tutto il mondo le donne si mobilitano e sono proprio le donne a pagare sui propri corpi il prezzo della resistenza e delle ribellioni.

Il potere economico del liberismo, il capitalismo, il patriarcato imperante, il fascismo, le strategie guerrafondaie interventiste poggiano saldamente sul dominio del modello di una società maschile e maschilista.

Anche nel nostro paese la guerra contro i poveri ed il feroce scontro di classe dell’alto contro il basso, che l’egemonia razzista e liberista indirizza nella guerra del penultimo contro l’ultimo, ha questo segno marcato.

Ogni 3 giorni in Italia una donna viene uccisa da una persona di sua conoscenza, per lo più il partner o l’ex. In Parlamento la PAS (sindrome da alienazione parentale) sembrerebbe archiviata insieme al Ddl Pillon, ma viene utilizzata costantemente nei Tribunali come strumento punitivo e deterrente per le donne che si separano e che subiscono violenza domestica. Il Codice Rosso è stata un’operazione di facciata che non riconosce le donne come soggetto attivo e non agisce preventivamente ma solo dopo che la violenza o il femminicidio si compiono. Di fronte a questo i consultori pubblici, gli spazi femministi ed i centri antiviolenza, come Lucha Y Siesta e non solo, vengono chiusi, sgomberati o definanziati.

In questo quadro la precarietà, il gender pay gap e la discriminazione di genere nel lavoro minano sempre di più l’autonomia personale e l’indipendenza economica delle donne come condizione fondamentale per affrancarsi dalla violenza e dalla subalternità che la società gli impone.

Non a caso in questa crisi nel nostro paese, dove ci sono sempre più poveri e sempre più working poors, tra questi in cima alla classifica abbiamo le donne insieme ai migranti, alle giovani generazioni precarie e a lavoratrici e lavoratori di età ancora non pensionabile delle aziende che chiudono. Senza considerare l’aumento dei pensionati a basso reddito. Il 44% per cento del totale dei pensionati vivono in una condizione di semi-povertà con meno di 1000 euro al mese e tra questi le donne sono in netta maggioranza essendo il 56,5% del totale ma percependo in media appena 8.469 euro l’anno (ricerca Istat-Inps).

Non è più possibile mettere la testa sotto la sabbia di fronte a questa realtà che ormai, grazie alle mobilitazioni di Non Una di Meno di questi anni, è tracimata sul piano pubblico e politico ed è sotto gli occhi di tutti.

Lavoro e gender gap

Per quanto discutibile la finalità, la fonte del gender gap index del WEF, usata a livello internazionale, disegna chiaramente alcuni tratti del nostro paese come società maschile, maschilista e patriarcale.

L’Italia in tre anni, dal 2014 al 2017, è passata dal 41° all’82° posto per gap di genere nella classifica mondiale. Pesa molto in questo l’assenza di servizi familiari che si ripercuote sui tassi di occupazione femminile e le discriminazioni all’interno e per l’accesso al mondo del lavoro.

La situazione attuale del 2019 ha sicuramente proseguito questo trend negativo visto che, anche secondo l’ultima ricerca dell’INPS (novembre 2019), il divario salariale di genere nel nostro paese aumenta ulteriormente con gli uomini che percepiscono addirittura il 44,3% in più rispetto alle donne nel settore privato e il 31,8% nel pubblico. Tra le motivazioni principali i demansionamenti, il lavoro riproduttivo non pagato, gli ostacoli alla carriera e il part time coatto (il 66% delle donne è costretta al tempo parziale nel privato).

Il divario tra uomini e donne, in Italia, secondo i dati citati del World Economic Forum, è da tempo in forte aumento: dal 41esimo posto fatto segnare nel 2015, siamo passati al 50esimo nel 2016, fino piombare nell’ultimo rapporto citato del 2017 all’82esimo.

Terz’ultimi in Europa, prima di Cipro e Malta, e preceduti da Grecia, Lussemburgo e Austria. Ben distanti dai modelli dei paesi nordici, ma anche dalla Francia, all’11esimo posto e dalla Germania, al 12esimo.

Gender Gap dell’Italia nel 2017. FONTE: Gender Gap Index

Gli indicatori economici e di salute elaborati del Gender Gap Index parlano chiaro. La differenza di possibilità tra uomini e donne su partecipazione e opportunità economiche, porta l’Italia in coda alla classifica: al 118esimo posto su 144 nazioni prese in esame. Tra le principali cause l’aumento progressivo della disuguaglianza salariale e la diminuzione delle donne in ruoli chiave per peso economico e decisionale.

Il divario di genere si allarga così, secondo il Wef, oltre il 30%. È per la prima volta dal 2014. Dal 2006 l’Italia avrebbe dovuto recepire, tramite il decreto legislativo 198, una direttiva europea su pari opportunità e pari trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione rimasta lettera morta nel Paese reale.

Secondo l’indagine conoscitiva sulle politiche in materia di parità, presentata dall’ex presidente dell’ISTAT, Giorgio Alleva, alla Commissione Pari Opportunità due anni fa, i dati confermano che, nonostante titoli di studio più alti (che dovrebbero costituire una maggiore garanzia di accesso al mondo del lavoro) sono ancora molto bassi i tassi di occupazione delle donne italiane e i loro livelli salariali cose entrambe che a catena determinano prestazioni pensionistiche totalmente insufficienti. Le donne hanno quindi maggiori difficoltà nella società italiana a costruire la propria autonomia personale e di vita, cosa che contribuisce non poco a tenerle ancorate a mariti e a famiglie di tipo patriarcale e spesso violente.

Non solo. «Una delle determinanti di questo risultato risiede nella bassa condivisione tra i componenti della famiglia della gestione dei tempi di lavoro e cura. Per le donne che partecipano al mondo del lavoro si profilano pertanto carriere più discontinue e retribuzioni più basse riconducibili alle minori possibilità di accesso alle figure apicali» dice sempre Alleva.

Le ricadute negative sull’economia femminile sono chiare visto che quasi il 20% delle donne nel 2016 aveva motivato la propria assenza dal lavoro, o la possibilità di fare solo part-time, con la carenza di infrastrutture pubbliche e accessibili in grado di tenere i propri figli durante il tempo di lavoro. Motivi che concorrono al minore accesso alle figure apicali, alla maggiore diffusione di lavori part-time e carriere discontinue che contribuiscono alle forti differenze di genere nei redditi percepiti.

Sempre secondo Istat, in Italia, nel 2015, solo il 43,3% delle donne ha percepito un reddito da lavoro (dipendente o autonomo) rispetto al 62% dei maschi. Questa quota è ancora più bassa al sud (34,2%) e il divario con gli uomini ancora più alto (24,5). Nonostante un maggiore livello di istruzione riduce (ma non annulla) le differenze, qualunque siano le caratteristiche considerate, il divario tra uomini e donne è rimasto sostanzialmente stabile dal 2008.

Ma per le donne italiane ci sono anche altri dati allarmanti che legano i rapporti produttivi con quelli riproduttivi: il numero medio di ore di lavoro non retribuito svolte in un anno è più di 2.500 per le casalinghe, 1.500 per le occupate e solo 800 per gli uomini (considerando sia quelli occupati, sia quelli non occupati!). E tra le 7,2 milioni di donne considerate casalinghe nel nostro Paese, nel 2015 sono state più di 700mila quelle in povertà assoluta, quasi il 10% del totale. Questo nonostante le casalinghe, con 20 miliardi e 349 milioni di ore, sono i soggetti che contribuiscono maggiormente alla produzione di lavoro familiare.

«Il lavoro delle donne in Italia continua ad essere caratterizzato da segregazione occupazionale, impieghi poco qualificati, employment gap, sottoccupazione. Record negativi che allontanano ulteriormente il nostro mercato del lavoro dai livelli degli altri Paesi europei» aveva dichiarato anche la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti, alla presentazione del rapporto della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. 

Ma oltre a un indubbio problema di “quantità”, c’è anche un grande problema di “qualità” dell’occupazione femminile. Nel 2016 l’80% dei dipendenti uomini era insieme a full-time e a tempo indeterminato. Per le donne invece la percentuale scende di più di venti punti percentuali.

Molestie sul lavoro

Altro indicatore della discriminazione di genere sono le molestie sessuali sul posto di lavoro.

L’indagine condotta da NAVEX Global rivela che in Europa, e in Italia, ne sono ancora vittime una donna su due. Secondo questo studio, più del 50% delle donne in un’azienda hanno subito una qualche tipo di molestia sessuale e a seguito di queste l’80% cambierà lavoro in due anni. Una discriminazione e una violenza che porta direttamente fuori dal posto di lavoro. Un’espulsione strisciante non riconosciuta.

Le molestie sessuali sono generalmente legate ad una subordinazione nell’organizzazione del lavoro da parte della vittima e spesso un abuso di potere da parte dell’aggressore. Non a caso le molestie vengono ricevute in numero maggiore da superiori. Ma subito dopo, non molto distanti, vengono colleghi e clienti a dimostrazione che le donne sono oggetto di queste forme di violenza (non importa che sia fisica o psicologica, perché tale è) non solo come esercizio di potere dall’alto, ma anche da presunti “pari” che quindi praticano questa forma di violenza verso la donna in quanto tale a prescindere dall’ambiente in cui il gesto avviene.

Accanto a questo convive un atteggiamento in molti ambiti di lavoro in cui la donna è relegata al ruolo di “immagine”, molto spesso quando si incontrano clienti o fornitori dell’azienda per cui si lavora. Questo atteggiamento, così come quello delle molestie aperte di cui sopra, manifesta un’organizzazione del lavoro maschile e maschilista e si intreccia coi bassi ruoli (pochissime sono le donne in ruoli apicali) e il “lavoro gabbia” (sempre lo stesso lavoro, livello, con nessuna possibilità di crescita economica e di carriera) a cui sono relegate le donne.

Non si pensi infatti che le forme di violenza e le pressioni sessuali nei confronti delle donne nei luoghi di lavoro avvengano solo sotto le forme comunemente riconosciute come “molestie”. Nei luoghi di lavoro è frequente l’attitudine a rivolgersi verso la collega donna con commenti e epiteti considerati a torto semplici “battute”, ma che alimentano continuamente un humus in cui è “lecito” o “tollerabile” che la donna sia oggetto di attenzioni sessuali non richieste. Gli stereotipi culturali profondamente radicati nella società e la tendenza al sessismo aprono la porta a comportamenti scorretti, violenti e alle molestie sessuali.

Sono le cosiddette “zone grigie”, quei comportamenti che tradizionalmente non sono mai stati considerati come vera e propria molestia, ma che oggi andrebbero riletti come tali. Ciò include molti commenti sessuali ripetuti e ripetitivi, barzellette a sfondo erotico umiliante, inviti allusivi a casa di un collega, domande invadenti sulla sfera privata, battute offensive verso una collega riguardanti la sfera personale sessuale. Questi atteggiamenti vengono spesso ignorati o al massimo derubricati nel “senso comune” come abitudini scherzose.

E invece si stima che una donna su 4 denunci un atteggiamento considerabile in questa “zona grigia”, ma quando tali comportamenti vengono contrastati attivamente dall’alto in un’azienda, il numero delle donne che escono allo scoperto denunciandoli come offensivi e discriminatori sale fino al 60%. E’ evidente quindi che le donne non lo fanno per paura di essere additate come “spie” del datore di lavoro, di essere poco “socievoli” e sentirsi escluse fino alla paura che la propria carriera ne possa risentire come conseguenza.

Per l’Istat sono 8,8 milioni le donne vittime di molestie. In questi dati si comprendono le molestie verbali, fisiche, violenze sessuali e ricatti sul lavoro. Sono 1 milione 404 mila le donne tra 15 e 65 anni che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul luogo di lavoro o da parte di un collega o di un datore di lavoro. Al momento dell’assunzione le più colpite sono le impiegate (37,6%) e le lavoratrici del commercio e dei servizi (30,4%). La parte maggiore delle vittime lavorava o era in cerca di lavoro nel settore delle attività professionali, scientifiche e tecniche (20%) e in quello del lavoro domestico (18,2%).

Grafico 1. Donne da 15 a 65 anni che hanno subito ricatti sessuali nel corso della vita e negli ultimi 3 anni, per tipologia di ricatto. Anni 2015-2016 (dati in migliaia e per 100 donne di 15-65 anni)

TIPOLOGIA DI RICATTO Nel corso della vita Negli ultimi 3 anni
in migliaia % in migliaia %
Ricatti per assunzione
a. Richiesta di prestazioni sessuali 333 2,1 62 0,4
b. Richiesta di disponibilità sessuale 708 4,6 89 0,6
Ricatti per avanzamento di carriera/mantenimento del posto di lavoro 268 1,8 43 0,3
Almeno un ricatto sessuale (per assunzione e/o per carriera) 1.173 7,5 167 1,1

 

Femminicidi

Ma l’Italia non è un Paese per donne non solo sul posto di lavoro o nella sua ricerca negata. La violenza di genere economica e culturale imperante si manifesta in maniera evidente in ogni ambito proprio perché c’è un femminicidio ogni tre giorni.

Il dato che emerge dall’ultimo rapporto Censis (lanciato in occasione del progetto Respect-Stop Violence Against Women): dal 1° agosto 2017 al 31 luglio del 2018 ci sono stati 120 i delitti in cui la vittima è stata una donna.

Centoventi femminicidi in 365 giorni, dal 1° agosto 2017 al 31 luglio del 2018: praticamente ogni tre giorni in Italia c’è una donna che viene ammazzata da un uomo. Di questi 120 omicidi, ben 92 sono avvenuti nell’ambito familiare o per mano di un partner o di un ex, persone che spezzano vite in nome di una concezione falsata di “amore” che nasconde un concetto tanto malato quanto diffuso di possesso e potere del maschile sul femminile. Non è il dolore straziante e la disperazione di “un amore non più corrisposto” che spinge a gesti “insani”, come spesso disegnano i media italiani i femminicidi, “vittimizzando” così anche il maschio assassino, quanto la considerazione della donna come “propria” e “oggetto” vincolato.

Il Censis ci dice che nell’ultimo decennio sono stati quasi 50.000 i reati di violenza sessuale denunciati e, tra questi, in più del 90% dei casi la vittima era una donna. Inoltre, nei primi 8 mesi del 2018, alle 3.000 violenze sessuali denunciate si devono aggiungere oltre 10.000 denunce per maltrattamenti all’interno della famiglia, quasi 9.000 denunce per percosse e 8.500 denunce per stalking.

L’unico dato incoraggiante è che, anche grazie alla ripresa delle mobilitazioni femministe e al movimento Non Una di Meno, sono in aumento le donne che si rivolgono alla rete dei centri antiviolenza: 49.152 solo nel 2017, con 29.227 donne prese in carico da quegli stessi centri che spesso sono vittime della mancanza di sostegno pubblico con rischi di sgombero, chiusura o tagli ai fondi.

Se tutto questo ci disegna che questo non è un paese per donne, allora è chiaro perché la Rivoluzione o sarà femminista o non sarà.

 

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