Sentenza #riders di Torino. Un’occasione unica per la lotta in tutta la gig economy

Il Tribunale di Torino riconosce i riders come lavoratori subordinati e gli riconosce stipendio, ferie e tutele del CCNL logistica e trasporti. Il governo pensa già a una norma che smini gli effetti potenziali mentre i sindacati confederali chiedono di rimandare tutto a un tavolo di concertazione con le aziende riunite in Assodelivery.

E’ un’occasione unica per pretendere l’applicazione del CCNL a tutti i riders, creando un precedente per riconoscere il lavoro subordinato nella gig economy, eliminando il falso lavoro autonomo e aprendo un percorso per l’estensione delle tutele minime a quello residuo.

Venerdì 11 gennaio la sentenza d’Appello di Torino su Foodora diventa notizia su tutti i giornali. Lunedì 14 arriva subito l’annuncio del ministero del Lavoro: “A marzo la norma per i riders”. I sindacati confederali si affrettano a dichiarare che non serve una legge, ma che bisogna tornare al tavolo di concertazione tra loro (che non rappresentano granché nel settore) e i padroni delle piattaforme riunite nell’AssoDelivery. Nel frattempo le rivendicazioni e le mobilitazioni dei riders reclamano il riconoscimento completo della subordinazione come dipendenti della loro posizione lavorativa. Infine, molte nuove vertenze potrebbero ora aprirsi appellandosi alle motivazioni di quella stessa sentenza per chiedere alle piattaforme di delivery l’applicazione del CCNL di riferimento al posto del lavoro autonomo.

Quello dei riders e della loro tutela sotto il punto di vista lavorativo è quindi un tema di strettissima attualità e questo sopra descritto è lo scenario in cui si giocherà la partita dopo questa sentenza della Corte d’Appello di Torino che ha accolto parzialmente il ricorso di 5 ex ciclofattorini stabilendo la subordinazione di diritto del loro rapporto di lavoro e parificandoli conseguentemente per salario, ferie e tredicesima al CCNL della logistica e trasporti. Allarmato dagli effetti che questa sentenza può avere su tutto il settore, il Governo si è affrettato a pensare alcune misure immediate per sminarne le potenzialità garantendo alcune tutele in più, ma non imponendo il CCNL per disciplinarne il rapporto di lavoro. Dalle indiscrezioni si parla ad esempio di limitare il cottimo, limitare le consegne orarie, stabilire una paga oraria minima, un massimo di ore settimanali, un forfait come indennità di fine rapporto e un piccolo rimborso spese per la manutenzione dei mezzi utilizzati. Tutte misure che sicuramente mitigherebbero le condizioni di sfruttamento dei riders, ma che impedirebbero alla sentenza di diventare leva per il riconoscimento completo della subordinazione del loro lavoro e di imporre l’impianto completo delle tutele di un CCNL di riferimento in luogo del falso lavoro autonomo attuale. Al tavolo di concertazione, istituito da Di Maio al posto del decreto di stabilizzazione promesso e poi archiviato lo scorso anno, le associazioni datoriali di AssoDelivery recalcitrebbero sicuramente, ma il governo potrebbe offrirgli questa scappatoia rispetto alla strada dell’assunzione come dipendenti dei propri fattorini a cui a quel punto servirebbe probabilmente una nuova sentenza. Queste grandi piattaforme di delivery (Glovo, Deliveroo, Just Eat ecc…) avevano già rifiutato infatti una proposta di accordo arrivata dal governo lo scorso anno cosa che tra ottobre e novembre aveva fatto ripartire le mobilitazioni.

Ma lo scenario oggi sembra cambiato e la minaccia delle aziende di lasciare il mercato italiano per rivolgersi altrove in Europa, se fossero state imposte tutele e diritti alle proprie lavoratrici e lavoratori, tuona meno preoccupante. La sentenza di Torino arriva, infatti, dopo altre analoghe in molti paesi europei che già avevano messo in discussione nei propri paesi la condizione di lavoratori autonomi dei ciclofattorini e dei lavoratori impiegati nella gig economy. Oltre alla sentenza per i lavoratori di Uber in Inghilterra, ce ne sono state analoghe per i diritti e le tutele dei riders in Belgio, Francia, Spagna, Austria e ora Olanda. Solo in Germania la flessibilità e la schiavitù totale pretesa dalle piattaforme di food delivery non si è dovuta confrontare contro le sentenze di un Tribunale o le intimazioni di un Ispettorato del Lavoro, perché i ciclofattorini vengono assunti già da subordinati con la formula dei mini-job con bassi salari e tutele minime.

In attesa del testo del provvedimento occorre sfruttare il momento e preparare il rilancio della battaglia ad un nuovo livello visto che i riders, nonostante si calcoli che in Italia siano al massimo 10 mila unità, sono la punta di un iceberg molto più grande dello sfruttamento del lavoro oggi.

Sono molte le lavoratrici ed i lavoratori “stabili” che perdono il posto per crisi aziendale, si vedono precarizzati da esternalizzazioni e cessioni di ramo d’azienda, escono dal ciclo produttivo, dopo l’esaurimento di Cigs e mobilità, e che poi senza prospettive entrano per sopravvivere nella giungla dei lavoretti e dei nuovi contratti senza tutele. A loro volta moltissimi giovani sono precari e lavorano in maniera parasubordinata con false partite IVA o con finti lavori autonomi nella gig-economy, lavoretti al nero oppure come somministrati o intermittenti entrando e uscendo di continuo nel/dal mondo contrattualizzato che, con il Jobs Act, consente assunzioni e licenziamenti continui per gli stessi posti di lavoro e per le stesse persone coinvolte.

In questo i riders sono un pezzo della gig economy e una piccola parte del più vasto mondo degli autonomi con finti contratti da freelance.

I numeri dei “gig workers” nel nostro paese sono stimati tra 700.000 e 1 milione di persone secondo un’indagine della “Fondazione Rodolfo Debenedetti”. La gig economy (letteralmente economia del lavoretto) riguarda infatti tutto il lavoro on demand per la fornitura di servizi, prodotti o competenze messo a disposizione dei consumatori attraverso la algocrazia delle piattaforme web o delle app che le aziende usano con la doppia funzione del controllo dei ritmi del lavoro e della domanda just-in-time del mercato. Si tratta quindi non solo di food delivery, ma di servizi di trasporto (Uber), pulizia e lavori per strutture (Airbnb) o privati, babysitter, idraulici, progettazione siti web (Upwork o Fivver), clouding, vendita prodotti artigianali (Etsy)…un’infinità di servizi e prodotti per il mercato. Nel nostro paese il volume di affari è enorme se solo nel food delivery (analisi Coldiretti/Censis) sono 18,9 milioni gli italiani che in un anno con regolarità (3,8 milioni) o più occasionalmente (15,1 milioni) hanno ordinato tramite una piattaforma online cibo poi recapitato dai riders.

Nella gig economy italiana quasi la metà di chi fa questi lavori è donna e solo per 150 mila si tratta dell’unico lavoro svolto. Oggi le lavoratrici ed i lavoratori vengono contrattualizzati come co.co.co. nel 10% dei casi, nel 21% a chiamata, mentre nel 50% con collaborazione occasionale a ritenuta d’acconto. Non mancano nemmeno le partite IVA che, con il part-time involontario, sono diventati i nuovi “voucher”. Più del 50% viene pagato a cottimo (a consegna) e meno del 20% è pagato a ora. Il guadagno medio si attesta sugli 839 euro per chi lo fa come lavoro principale e 343 euro per chi lo fa come lavoretto.

Tutto il variegato mondo del lavoro autonomo in Italia conta circa 6 milioni di persone, ossia il 23% dell’occupazione totale, quasi dieci punti percentuali in più che in Francia o in Germania dove gli autonomi sono circa il 15% degli occupati. All’interno di questo composito universo ci sono esperienze vere di libera professione e di lavoro effettivamente indipendente, ma per la grande maggioranza si tratta di lavoro parasubordinato, mono-committente o nei fatti lavoro dipendente mascherato. Le stime Isfol attestano una presenza assai significativa di lavoro parasubordinato (le collaborazioni occasionali, a progetto, ecc…), mentre il regime di committenza unica riguarda anche la grande maggioranza del lavoro a partita IVA (dati Inps). E’ evidente che la condizione di lavoratori autonomi economicamente dipendenti (co.co.co., a progetto, partite iva in mono-committenza, ecc.) dipende non da una “libera” scelta, ma dalla riduzione dei rapporti di lavoro salariato classico che si presenta come esclusione dal lavoro e il lavoro autonomo diventa il meccanismo per organizzare e rendere precario un rapporto comunque di fatto subordinato. In questo settore, non a caso, è cresciuta esponenzialmente una fascia di lavoratori “fragili” che a causa dei rapporti di lavoro intermittenti e dei livelli economici insufficienti (anche per l’assenza di welfare pubblico e di tassazioni gravose per loro) stentano ad arrivare ad un reddito dignitoso qualificandosi di fatto come working poors.

«I rider sono solo il fenomeno più visibile del finto lavoro autonomo che necessita di tutele», secondo Valerio De Stefano, docente di Diritto del lavoro all’Università di Leuven, in Belgio ed esperto di gig economy. «E per giunta il combinato disposto tra decreto dignità e flat tax sulle partita Iva potrebbe ora rendere il lavoro autonomo molto più conveniente per i datori di lavoro, facendo proliferare le false partite Iva in molti settori». Sempre secondo De Stefano «La legislazione non può nascere da un accadimento specifico. Nessuno nega che ci sia bisogno di maggiori tutele per i rider, ma un decreto legge solo sui rider del food delivery ha poco senso. Oltre al fatto che la platform economy ingloba molte altre tipologie di lavoratori, c’è un fenomeno più vasto in Italia di lavoro qualificato come autonomo ma che autonomo non è, e che va regolato. E la sentenza della Corte d’Appello di Torino fornisce la direzione per farlo».

Il riferimento nella sentenza di Torino è all’articolo 2 del Jobs Act (dlgs 81/2015) a cui si fa riferimento per equiparare i riders di Foodora agli altri fattorini della logistica con contratto di lavoro subordinato. Questa norma può estendere le tutele del lavoro subordinato a quello autonomo, rimettendo però nelle mani dei sindacati la possibilità di fare accordi specifici. Finora i giudici lo avevano sempre interpretato in maniera restrittiva tant’è che in primo grado il Tribunale di Torino aveva respinto le richieste dei ciclofattorini.

Sulla base di questo forse c’è un’occasione unica per pretendere l’applicazione del CCNL a tutti i riders, creando un precedente valido per tutta la gig economy e per chiedere l’estensione delle tutele minime al lavoro autonomo residuo per impedirne l’uso padronale a fini di dumping salariale e di diritti.

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